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Channel: Interviste Archivi - Il Giornale OFF

Marianella Bargilli:”Mi misuro con un doppio ruolo nel capolavoro Uno, Nessuno, centomila”

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In tour con con l’opera di Pirandello Uno, Nessuno e Centomila nell’unico ruolo femminile della trasposizione teatrale del romanzo del drammaturgo siciliano, Marianella Bargilli famosa con la terza edizione del padre di tutti i reality,  ci racconta della sua passione per il teatro, una carriera lunga vent’anni.

Il Grande Fratello nelle,prime edizioni ha messo in luce personaggi che come te hanno fatto strada nel mondo dello spettacolo. Cosa è cambiato da 22 anni ad oggi?

È cambiato tutto. Agli inizi si partecipava per curiosità e non si sapeva cosa sarebbe successo. Oggi credo che ognuno abbia le sue motivazioni stretta e personali. Immagino ci sia chi lo fa per soldi, chi per ridare una spolverata al suo passato professionale. Io confesso di non avere tempo per seguirlo visto che, per fortuna,  di sera lavoro in teatro e quando non sono sulla scena sono in prova.

Tu hai scelto una strada meno frivola, rispetto a molti ex protagonisti, e l’hai perseguita senza sconti e con dedizione. Quando hai capito che la tua vita sarebbe stata in teatro?

Da bambina. Le mie cugine mi ricordano che quando eravamo piccole io le trascinavo in spettacoli casalinghi. Ho frequentato il liceo linguistico da ragazza ma dopo una rappresentazione scolastica ho sentito che il mio destino sarebbe stato quello del teatro. Ho frequentato la scuola di recitazione di Beatrice Bracco dopo il Grande Fratello ma già prima avevo scelto di seguire studi accademici per diventare attrice. Volevo stare in teatro più di ogni altra cosa e  quello ho fatto senza mai cambiare rotta nonostante una vita costellata di sacrifici. Per fortuna i sacrifici mi hanno portato ad ottenere anche grandi soddisfazioni che evidentemente sono la spinta a continuare in questa direzione.

Sei in tournée con Pirandello nelle vesti della protagonista femminile che non è la protagonista assoluta della pièce. Cosa ha influito sulla tua scelta di interpretare questo ruolo?

Non sempre essere i protagonisti assoluti è importante quando si recita. Ciò che conta è poter lavorare su un ruolo che ti permetta di toccare certe corde e attraverso Pirandello questo è facile e difficile allo stesso tempo. Facile perché l’autore ti ci porta naturalmente grazie alla sua riflessione sull’essere e sull’apparire, difficile perché arrivare in profondità è doloroso e impegnativo. Ho scelto di interpretare il doppio ruolo di Dida, la moglie del protagonista, e di Maria Rosa, la sua quasi amante, prima di tutto perché ho avuto l’opportunità di lavorare accanto al maestro Pippo Pattavina, un grande attore dal quale continuare ad attingere mestiere ed esperienza. Il secondo perché mi sono anche divertita a interpretare il femminile soggiogante, oscuro e  ambiguo da una parte e provocantemente ingenuo dall’altra.

Dopo due anni sei tornata sul palco del teatro Quirino di Roma che per anni è stata la tua casa. Che effetto fa vedere il pubblico mascherato quando si accendono le luci sulla platea a fine spettacolo?

La pandemia ci ha cambiato la vita, ha interrotto improvvisamente tutti i rapporti umani. Abbiamo iniziato ad usare le video chiamate per relazionarci, abbiamo dovuto rinunciare agli abbracci, alle strette di mano e in generale al contatto fisico perciò tornare in teatro dal vivo e vedere il pubblico in sala è comunque un’emozione straordinaria nonostante le mascherine sembrino appiattire l’effetto. Devo dire che per ciò che mi riguarda sto cominciando a farci l’abitudine ad una platea   popolata da manichini apparentemente tutti uguali, per fortuna ci sono gli applausi  autentici e reali che rappresentano una certezza per noi attori e soprattutto rappresentano un incentivo ad andare avanti e a credere nel ritorno alla normalità.

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Iva Zanicchi:”Torno sul palco dell’Ariston, Sanremo si deve fare in gara”

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E’ una delle interpreti per eccellenza della canzone italiana e  la donna con più vittorie nella storia di Sanremo, dove quest’anno rappresenterà la gloriosa vecchia guardia assieme a Gianni Morandi e Massimo Ranieri. Iva Zanicchi torna per l’undicesima volta sul palco che l’ha vista nascere artisticamente, con “Voglio amarti”, brano sentimentale che coniuga la melodia con l’anima blues dell’Aquila di Ligonchio, scritto da Italo Ianne con Vito Mercurio e Celso Valli, su testo di Emilio Di Stefano. ”E’ un inno all’amore – ci dice – ci sono parole che una donna può dire al suo uomo”.

Sappiamo che è un brano rimasto nel cassetto fino ad oggi

“Italo aveva fatto un provino cantato da lui e rimasto inedito. Dopo l’estate gli ho chiesto un brano per il mio disco e mi ha mandato questo che ho sentito subito nelle mie corde. Anche i musicisti del mio programma “Diva” ne sono rimasti così entusiasti da suggerirmi di proporre il pezzo al festival. Quando ho sentito voci su un mio coinvolgimento a Sanremo in un ruolo non ben definito, ho chiamato Amadeus e gli ho detto di voler tornare in gara perché Sanremo secondo me si deve fare in gara. Dopo l’annuncio ufficiale della mia partecipazione ho fatto arrangiare il brano da Celso Valli, uno dei più grandi professionisti italiani del settore”.

Sarà un Sanremo speciale anche perché andrai con la Luvi Records, l’etichetta fondata da sua figlia Michela Ansoldi

“Questo è il lato più emozionante del festival, perché Michela porta avanti una tradizione di famiglia. Suo nonno, Giovanni Battista Ansoldi, aveva fondato la Ri-Fi, dove ci sono stati la prima Mina, Leali, i Giganti e poi me. Porta quindi avanti la passione del nonno e del padre con questa etichetta il cui nome deriva da quello dei figli Luca e Virginia”.

Nella serata delle cover renderà omaggio a Milva con “Canzone”, il brano che arrivò terzo al festival nel 1968. Perché questa scelta?

“E’ un pezzo di Don Bucky che lei aveva cantato in coppia con Celentano. Ho sempre stimato Milva; è stata una cantante che ha dato tantissimo, un’artista molto raffinata stimata in tutto il mondo e avrebbe meritato di essere ricordata più spesso. Canterò da sola con una piccola sorpresa e lei si vedrà all’inizio. Sarà un omaggio ad una grande artista”.  

Lei è la donna con più vittorie all’attivo nella storia del festival:1967, 1969 e 1974. Un vero record…

“Ho vinto tre volte, ma amo ricordare anche il terzo posto nel 1970 con una canzone che il grande Sergio Endrigo scrisse per me, “L’arca di Noè”. I critici la stroncarono definendola “un brano da Zecchino d’Oro”, mentre aveva un testo bellissimo, futurista, scritto da un artista stimato”.

In 72 edizioni Sanremo è stato calcato da grandi interpreti e anche quest’anno c’è una forte presenza femminile nel cast. Il festival è sempre stato attento secondo te al talento delle donne?

“Sanremo ha sempre valorizzato molto le donne che soprattutto negli anni ’60 e ‘70 hanno dato tanto, da Mina a Milva fino alla Vanoni e Patty Pravo. Anche quest’anno ci sono donne straordinarie, come Elisa, Noemi, la Marrone, la Rettore che torna, per non parlare delle giovanissime, tutte artiste vere”.

Come è cambiato Sanremo dagli anni ’60 ad oggi?

“Sanremo allora era l’evento più straordinario in Italia, di un’importanza talmente vitale che i cantanti arrivavano spaventatissimi, perché ti caricavano di una responsabilità così grande da farti impazzire dal terrore. Per un eliminato poteva significare la fine della carriera. All’epoca, un cantante sconosciuto il giorno dopo si trovava centinaia di fans davanti all’albergo, come è accaduto alla mia amica Caterina Caselli. Ancora oggi dà tanto, se pensiamo che i Maneskin in questo momento sono un gruppo conosciuto in tutto il mondo. E poi un tempo si collegava davvero tutta Europa per vederlo, a tal punto che paesi come il Brasile e la Romania hanno cercato di imitarlo. Ma il marchio ovviamente è nostro ed è un orgoglio tutto italiano”.

 

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Lorenzo Santangelo il ricordo del nonno, la vittoria del Premio De André.

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Un po’ cantante. Un po’ scrittore. Un po’ pellicola e riflesso. Lorenzo Santangelo è una vita in musica. A quattro anni inizia a studiare pianoforte. Dopo aver frequentato il conservatorio di Santa Cecilia si avvicina alla forma canzone, affascinato dai grandi cantautori italiani. A fargli compagnia la chitarra e le lezioni da autodidatta, la realizzazione dei primi demo, con un pensiero fisso: “Ho sempre cercato di creare io il percorso, non di seguirlo”. Poi le collaborazioni e un romanzo alle spalle “Qualsiasi cosa sia”. Il trasferimento in Australia nel 2012 scrive le pagine più interessanti del suo percorso, per sette anni decide di vivere in un Paese diverso, ottenendone anche la cittadinanza. Tornato in Italia collabora con diversi artisti, lavorando come autore. Negli ultimi anni ha pubblicato due EP (“Canzoni in fuga” e “Respiro”) e un Lp (“l’ultimo album d’esordio”). Ma il successo arriva con “L’arancio”, il suo nuovo singolo con il quale vince la XX edizione del Premio Fabrizio De André nella sezione Musica. Prodotto da Filippo Raspanti per Sphere Music International, “L’arancio” è un viaggio emozionale che ha come traccia un immaginario monologo del nonno. Parole in dialetto romano, per ricordarci la bellezza che rimane dietro, che gioca sulla difensiva, non attacca, sta in trincea. A farla emergere sono le riflessioni di Lorenzo, che pungono e poi esplodono come rabbia nei confronti di un tempo andato.

“Prima di scrivere sento un inquietudine che poi vado a plasmare con la penna. Nell’arancio questo aspetto è presente all’ennesima potenza. Non parlo solo di mio Nonno, in realtà faccio dire a lui quello che vorrei non accadesse a me. Scrivere è veramente una terapia. ”Un percorso non lineare, uno specchio per sfidare il tempo, una strada dietro le parole che calibrano ogni frase, concetto. Un posto che diventa lo spazio dei piccoli terzi che sovvertono le cose fino a disgregare l’ordine esatto in cui vive la paura, il dietro le quinte di chi non si fa notare ma che evidenzia a se stesso l’essenziale. Un distacco di sette anni dentro i quali Lorenzo ha sempre sentito come chi la vita la vive da cantautore, l’esigenza di custodire qualcosa che appartiene alle proprie radici.

Con “l’arancio” svuota e riempie stati d’animo, smonta con l’intento di ricostruire poi. C’è un gesto semplice che apre il testo come una richiesta d’aiuto, ma che in realtà ne diventa la metafora attraverso la quale si entra dentro la vita degli altri in un rapporto con le parole che diventa immortale, come quello tra nonno e nipote. “Vincere il premio dedicato a quello che nell’immaginario collettivo è considerato il cantautore per eccellenza ha un significato davvero molto importante per me. E vincerlo con questo pezzo, “L’arancio” vale ancora di più, perché è un pezzo vero, scritto con il cuore. Fabrizio De André ci ha lasciato un patrimonio inestimabile e vedere il mio nome associato in qualche modo al suo mi mette i brividi. ”Il testo del brano, raffinato ed incisivo allo stesso tempo restituisce l’abbraccio armonico, partendo da una tenera immagine di vita quotidiana, seguita da una serie di riflessioni dal forte impatto emotivo. Il videoclip è stato girato in Toscana in un casale dell’800 da Gabriele Paoli. Sono stati scelti colori caldi e atmosfere dal sapore classico. In perfetta coerenza con il testo, un posto intimo che ne realizza il senso.

“L’arancio” dimostra che se scrivi qualcosa con il cuore, poi alla fine arriva. È un pezzo vero, per niente furbo, non ha la classica struttura strofa/ritornello, non strizza l’occhio alle sonorità del momento, ma la gente la sta apprezzando profondamente, la sente. Il cantautorato italiano è un’eccellenza e va protetto. Bisogna credere di più nei cantautori e aiutarli a crescere. In Italia, invece, un cantautore deve fare tutto da solo. E se non riesce, molla. Pensa se avesse mollato De André, o Dalla, o Battiato. Pensa che disastro culturale. Abbiamo bisogno dei cantautori.” Lorenzo ci ricorda l’importanza dell’autenticità e lo fa dipingendo immagini con le parole. Certe canzoni sanno entrare in punta di piedi e diventano un po’ parte di quello che siamo. “L’arancio” intrappola un momento di vita, un incontro generazionale, attraverso un legame emotivo che collega il cantautore all’ascoltatore, la forza della musica è proprio questa, riportarci a casa, anche solo dopo il primo ascolto.

 

 

 

 

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Andrea Pasqualini:”Il mio nuovo singolo celebra la capacità di superare i miei limiti”

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Andrea Pasqualini è un musicista creativo e brillante. In questa intervista ci racconta molto di sé e anche del suo nuovo singolo Magnitudo.

Come ti sei appassionato alla musica?

La passione per la musica e per l’arte in generale secondo me è innata. Vedo l’arte come una vera espressione individuale, una sorta di linguaggio puro che comunica senza dar conto a regole sociali e culturali. Ne sono da sempre rimasto affascinato. Sin da quando sono bambino ho sempre amato la musica, pensate che i miei genitori mi hanno fatto crescere con Laura Pausini e Gino Paoli. All’età di 13 anni ho capito che il canto e la musica fossero la strada giusta per il mio futuro, perché sentivo che attraverso questo potevo riuscire a fare qualcosa per il mondo. Sentivo già a quell’età che avevo qualcosa da dire, qualcosa di importante da fare e che non potevo più tener dentro. Da qui ho deciso di iniziare a studiare da autodidatta. Dopo, un anno, ho iniziato a studiare con insegnanti di canto molto validi e, grazie a loro, alla mia costanza e alla mia voglia di migliorare sono riuscito ad ottenere ottimi risultati ed essere soddisfatto di me stesso. Oggi, grazie alla mia costanza e tenacia, sto costruendo piano piano, mattone per mattone, il mio sogno. È proprio vero, se credi in ciò che fai riuscirai a raggiungere ciò che vuoi. I sogni non hanno limiti, la scalata può essere anche difficile ma alla fine il panorama è stupendo. Questa, non a caso, è una citazione alla mia più grande fonte di ispirazione, artistica e personale, Miley Cyrus.

“Magnitudo”, raccontami questo singolo, cosa vuoi comunicare?

Magnitudo è la mia festa. È un brano nato dalla consapevolezza di se stessi, di ciò che siamo e che dobbiamo apprezzare in ogni nostra singola sfumatura. È la celebrazione della mia vittoria personale e di chiunque ci si rispecchi. La vittoria nell’aver superato qualsiasi tipo di limite, di giudizio e di pregiudizio. Magnitudo è la mia evoluzione che avevo bisogno di raccontare. Attraverso questo brano voglio trasmettere un rilascio di energia, un messaggio per scuotere chi come me si sente o si è sentito inadeguato. Un ringraziamento speciale va sicuramente al Maestro Mario Zannini Quirini, che ha prodotto il pezzo e che sin dall’inizio a creduto in me e alla mia arte.

Ho letto che Magnitudo rappresenta anche un tuo cambiamento spirituale

Sì, esatto. Questa forza di cui parlo, questo terremoto, nasce dal bisogno di raccontare un periodo dell’adolescenza, quando ero molto timido, ma forte allo stesso momento, e venivo messo in ombra dalle relazioni con il resto dei coetanei ed amici. Questo sentirsi “fuori posto” o “un gradino inferiore agli altri” mi ha portato a riflettere e cercare di capire cosa effettivamente era sbagliato in me. Risultato: nulla! Arriva così la “giusta spinta” per superare ogni ostacolo. Un bisogno forte, che mi fa andare oltre quel “gradino”, dove imparo a farmi scivolare addosso i commenti sull’aspetto fisico o il carattere troppo ingenuo. Magnitudo è quindi il frutto di questa rivoluzione, una sorta di terremoto interiore di vita, di libertà e ribellione. Una canzone che simboleggia un manifesto della vittoria personale nel superare qualsiasi tipo di limite, di giudizio e di pregiudizio. La musica mi ha liberato da tutto e tutti da sempre. Non smetterò mai di ringraziarla.

La copertina ha attirato la mia attenzione con te vestito con questo costume spaziale. Come è venuta l’idea? 

La copertina mi fa impazzire, sono rimasto a guardarla per ore non appena mi è stata consegnata perché ne ero e sono davvero soddisfatto. Dietro c’è stato un grande lavoro, sia creativo ma soprattutto pratico. L’idea è nata da me e Giulio Cafasso, il fotografo che ha realizzato quest’opera d’arte. Volevamo creare qualcosa che esprimesse a pieno il senso del brano ma che allo stesso tempo facesse riflettere. Il significato è tutto concentrato sui nastri rossi che mi tengono legato, rappresentano tutte quelle regole sociali, quei pregiudizi e giudizi che mi hanno da sempre legato tenendomi in gabbia. Tranne uno: il nastro sciolto simboleggia invece la speranza, il momento della mia liberazione e la vittoria personale nell’aver superato tutti i limiti. Il vortice sotto di me rappresenta proprio la mia anima, fatta di musica e rivoluzioni, ribelle e libera. Volevamo racchiudere il tutto in un forte senso di potenza: magnitudo.

 Progetti per il futuro?

Ci sto lavorando molto. Ho scritto nuovi pezzi che mi stimolano molto e che raccontano altre sfumature di me che non ho mai mostrato. Non vedo l’ora! Comunque mi sto godendo anche Magnitudo che è da poco venuta alla luce.

 

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Andrea Martinelli e i volti della memoria: la pittura come auto-psicoanalisi

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L’arte ha bisogno di raccontare qualcosa di forte, viscerale, una galassia di emozioni che provenga dalla parte più recondita dell’autore e che si perda, attraverso la realizzazione, nel flusso incosciente che trasforma ciò che è figlio dello spirito in qualcosa di terreno, di tangibile. Le opere del pittore Andrea Martinelli mostrano i punti di contatto con la grande tradizione del crudo realismo visivo per essere però coniugata ad una dimensione di reminiscenza in cui si manifestano le ombre di fantasmi che riaffiorano come angeli protettori di un eterno silenzio. Lo stesso religioso silenzio che ogni spettatore acquisisce stando dinanzi ad un’opera di questo pittore, che nell’arte ha trovato il varco per un’auto-psicoanalisi e che degli occhi delle figure ritratte ne ha fatto il proprio sguardo.

Sei un ritrattista conosciuto prevalentemente per i primi piani in cui affidi allo spettatore il compito di farsi rapire da uno sguardo. Quali sono i punti chiave della tua opera?

Il punto chiave è la rappresentazione dell’uomo. Ho cercato in tutti questi anni di raccontare l’essere umano attraverso la sua storia e credo non ci sia cosa migliore di un volto per raccontare il percorso di ognuno di noi. Il punto focale è sempre stato quello, raccontare le storie attraverso i volti di questi personaggi che sono o figure vicine a me o che incontro nella mia vita e che, in qualche modo, mi rimandano sempre a  qualcosa della mia vita passata. Ognuno di loro è ciò che io chiamo il volto della memoria.

Cos’è in realtà un volto per te? 

 Ho esordito con una mostra dal titolo Senescenze, correva l’anno 1993 e il titolo credo che dica già tutto, si trattava di una lunga serie di ritratti di volti di anziani. L’idea è nata dopo la morte del mio amato nonno a cui ero molto legato e questa sua scomparsa è stata per me talmente dolorosa e lancinante, era la prima visione della morte che ho avuto nella mia vita ed avevo 26 anni, che si è innescato questo desiderio in me di ricercarlo attraverso gli occhi degli altri ma la cosa più bella è che alla fine attraverso gli occhi degli altri ho trovato me stesso. Sono molto interessato ad entrare nella vita degli altri anche come specchio, perché alla fine ho scoperto che quando racconto un personaggio attraverso il disegno è in realtà come se raccontassi me stesso. Quindi, attraverso questa mia visione, credo che nessuno meglio di un vecchio possa raccontare la vita attraverso il proprio volto. Ad esempio i solchi sulla pelle anziana sono come delle vie, dei solchi che queste persone hanno raccolto durante l’arco del proprio cammino e ciò mi affascina molto e quando li dipingo mi sento come un chirurgo e a volte queste rughe le aumento proprio per dare forza al racconto. Direi, inoltre, che fondamentalmente sento il bisogno di raccontare storie cariche di mistero, infatti dietro questi volti ci sono sempre delle ombre forti, tant’è che la mia ultima mostra antologica organizzata a Carrara due anni fa s’intitolava Storie di uomini e di ombre proprio perché a volte queste ombre si trasformano in vere  e proprie figure, come dei fantasmi, che non sono altro che i doppi o i tripli della stessa persona che rappresento. In realtà ne sono quasi gli angeli custodi. La memoria è un altro termine che utilizzo spesso nei titoli delle mie opere, perché in fondo dipingere un vecchio vuol dire raccontare una memoria, un camino acceso accanto al quale mi riscaldo.

 Definiresti la tua pittura per certi versi psicoanalitica o addirittura di auto-psicoanalisi?

Assolutamente si, credo siano degli autoritratti. Da quando cominciai questo lungo percorso ad oggi non è mai cambiata la mia esigenza di dialogare con me stesso attraverso l’arte, infatti questi personaggi non li ritraggo mai dal vero ma attraverso delle immagini fotografiche che io stesso realizzo. Faccio questo perché sono convinto che se avessi la figura nello studio davanti a me provocherebbe al mio interno una serie di emozioni che non saprei controllare, invece attraverso l’immagine fotografata posso, lentamente, immergermi dentro me stesso e questi occhi che guardano in realtà sono i miei ed è una cosa che viene dal profondo, dal voler raccontare le mie inquietudini, le mie angosce o le mie gioie attraverso il volto di qualcun altro. Inoltre, credo che per rendere vivo un volto occorrano quattro elementi fondamentali che sono: l’idea della vita, l’amore, la morte e la presenza di Dio, la commistione di tutto questo genera le mie opere e le rende vere. Infatti chi si trova dinanzi a questi volti ne rimane colpito e spesso addirittura turbato proprio per la verità che ne fuoriesce. A volte non è facile accogliere questi volti così forti. Per cui si, è un’auto-psicoanalisi e attraverso le immersioni che faccio nel mio studio  riesco a stare bene e a reagire ai fantasmi che la notte mi percorrono.

Secondo te l’arte visiva può rendere vivo ciò che è morto?

Certo. Ma non c’è niente di più maestoso della raffigurazione di un volto che non c’è più e soprattutto se è anonimo, infatti non dipingo mai personaggi regali ma bensì figure semplici, persone del popolo. Ad esempio mio nonno era soltanto mio nonno, ma attraverso il ritratto gli donato una maggiore grandezza rendendolo eterno. Una cosa che amo pensare è che questi ritratti continuino a vivere dopo la mia dipartita e che possano rimanere nel tempo e con loro tutte le emozioni che io, romanticamente, ho cecato di riportare su tela. Quado non ci sarò più le mie opere saranno più vive di prima.

Un tuo ricordo di Giovanni Testori?

Ho un ricordo meraviglioso di lui, anche se non ho avuto la possibilità di camminare al suo fianco per tanto tempo perché riuscì a vedere le mie opere poco prima della sua scomparsa. Lo conobbi nel 1987 a Firenze e  gli dissi che ero un pittore e che volevo fargli vedere il mio lavoro, lui amava molto la pittura della realtà. Alcuni anni dopo andai a Milano e feci recapitare nell’ospedale in cui era ricoverato la cartella con tutti i miei disegni e lui rimase molto colpito tant’è che chiese al gallerista al quale era legato di prepararne una grande mostra che avrebbe presentato ma purtroppo non fece in tempo. Ad ogni modo fu quell’input con cui riuscii poi ad entrare in questa galleria e così è cominciata la mia carriera. Nonostante il nostro breve rapporto, gli devo molto perché l’ho seguito tanto e per me il fatto che abbia apprezzato le mie opere è stato qualcosa di enorme. Amava molto la realtà sofferente e gli artisti che ne restituivano la forza, quindi per me è stato davvero un grande maestro.

 

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Giulia Di Quilio:”La mia natura di attrice incontra il burlesque in un passato senza veli”

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Dopo il debutto al Teatro Off Off di Roma con il suo one man show Un passato senza veli, Giulia Di Quilio (dal 26 al 28 febbraio  a Prato al Teatro Borsi), attrice e performer di burlesque ci racconta i suoi inizi e come è nata la passione per quest’arte. Tutto ha avuto inizio dal set de La grande bellezza di Paolo Sorrentino e poi, lo spettacolo dove ripercorre la storia delle grandi dive dello strip-tease della Golden Age.

Il passaggio da attrice a performer di burlesque prevede l’abbandono della prima e l’immersione  nella seconda o riesci a interpretare entrambi i ruoli?

In realtà, sto cercando  di unire queste due strade anche se sono consapevole che esistono dei compartimenti talmente stagni che se fai una cosa non puoi fare l’altra. Io credo invece che entrambi i ruoli rappresentino l’espressione di un corpo solo, di una voce sola perciò dentro di me non mi sento separata in due come potrebbe sembrare dal di fuori. Nello spettacolo infatti parlo chiaramente del codice che appartiene solo alla performance di burlesque così diverso da quello dell’attrice di prosa. Da parte mia cerco di portare avanti queste due nature proprio attraverso questo spettacolo infatti, allo stesso tempo,  continuo a sostenere provini da attrice insieme alle mie performance di burlesque e alla scuola nella quale insegno questa disciplina.

Un passato senza veli ripercorri la storia delle più celebri dive di burlesque

Mi sono imbattuta in questi personaggi nel 2016 mentre scrivevo il libro Eros e Burlesque. Racconto del burlesque, della Golden Age e ovviamente delle performer che hanno reso grande quest’arte. Approfondendo la loro conoscenza mi sono affezionata ad alcune storie tra le quali quella sulla rivalità tra Sally Rand e Faith Bacon che ebbero una diatriba su chi avesse inventato la Fan Dance, ovvero la danza dei ventagli. È interessante sapere che la prima ebbe un grandissimo successo mentre la seconda si tolse la vita volando giù da un grattacielo a soli quarantasei anni. All’epoca il ruolo della donna era piuttosto marginale e se in Italia la donna era l’angelo del focolare negli USA  poteva almeno ambire a posizioni da segretaria. Le dive dello strip tease con coraggio uscivano dagli schemi imposti dalla società e per colei alla quale non si aprivano le porte del successo la crisi profonda era in agguato. Se oggi ci sono dei pregiudizi sul burlesque figuriamoci agli inizi del secolo scorso.

 Chi ti ha ispirato di più le vecchie o le nuove glorie di questo genere?

In Italia in effetti i nomi di queste dive sono pressoché sconosciuti: questo è uno dei tanti motivi che mi ha spinto a realizzare lo spettacolo. Il burlesque nasce in Inghilterra e trova il suo massimo splendore in America negli Anni Quaranta, da allora fino agli Anni Settanta questo tipo di strip tease sembra scomparire nel nulla per poi riapparire in Europa nel 2010 con Dita Von Teese , praticamente cent’anni dopo la sua nascita. È proprio grazie alla Von Teese che mi sono avvicinata a questo modo di stare sul palcoscenico.

Qual è stato il tuo percorso da allora?

Il mio percorso nasce appunto con una vera e propria folgorazione davanti a Dita Von Teese che sul palco del Festival di Sanremo si esibiva in una coppa di champagne esprimendo una sensualità straordinaria. Da quel momento sfruttando la mia preparazione di attrice e aiutandomi con una discreta faccia tosta mi sono buttata letteralmente nel vuoto e ho cominciato ad esibirmi nelle performance di burlesque da autodidatta grazie a You Tube e ai video delle performer americane. Grazie all’accademia di burlesque andata in onda su Sky in prima serata in versione talent show dove abbiamo avuto delle Guest star del calibro di Dirty Martini, ho iniziato ad evolvermi e ad affrontare una vera propria carriera di performer. E’ stato piuttosto faticoso soprattuto quando si è trattato di rompere la cosiddetta “quarta parete” per interagire con il pubblico. Agli inizi mi spogliavo guardandomi i piedi e il risultato non è stato proprio molto convincente. Provengo da un paesino dell’Abruzzo dalla forte matrice cattolica e con  il senso di colpa e il senso del pudore che incombono si fa presto a capire che il risultato è la summa di dedizione, caparbietà e coraggio altro che spettacolino sexy.

Tu sei comunque avvantaggiata dal fatto di essere un bellissima donna

Apparentemente sarebbe così ma il bello del burlesque, nomen omen, è che si tratta di un’arte molto inclusiva. Dirty Martini, appunto, una delle più famose performer del mondo pesa più di 100 kili e riesce ad essere super sexy e adorata dal pubblico. Certo è  che io stessa che insegno alle donne normali nella mia scuola di burlesque, mi accorgo che insieme alle proprie fragilità una donna continua a vivere il disagio che si prova abitando in un mondo misogino dominato dai maschi che tendono a giudicare sempre: se è troppo scollata la donna  risulta fuori luogo, se è troppo accollata risulta poco femminile. Quindi il mio essere adatta fisicamente a questo tipo di performance è assolutamente relativo perché ciò che conta veramente è il lavoro che va fatto su se stesse prima di salire sul palcoscenico.

Il burlesque come terapia magari per rafforzare l’autostima

Così è stato per me. Il corso di burlesque anche per chi non ha velleità artistiche sicuramente aiuta a consolidare la propria autostima perché grazie alla maschera di femme fatale qualunque donna si riappropria della parte seducente che è in ognuna di noi.

 

 

 

 

 

 

 

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Davide Melis:”Le mie canzoni sono un grido di protesta. Tra un sorriso ironico e sana rabbia”

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Davide Melis è un giovane cantautore molto attento alle tematiche sociali. Col suo ultimo singolo Molte multe, Davide denuncia un sistema che vede nella multa non il modo di favorire il rispetto delle norme ma semplicemente quello di avere un guadagno economico.

E’ appena uscito il tuo singolo “Molte multe”, che cosa vuoi comunicare?
Vorrei comunicare il disagio per un sistema che non condivido. Il fastidio e l’impotenza di fronte alla perdita del “buon senso” e al sempre più frequente utilizzo di multe e sanzioni non tanto al fine di favorire il rispetto delle norme, quanto per far tornare i bilanci delle amministrazioni nel tentativo costante di spremere dai portafogli della gente più soldi possibile eludendo il principio della
proporzionalità. Sì, lo so, ha un vago sapore di qualunquismo… però, volendo estremizzare, questa è la realtà. Purtroppo l’utilizzo di evoluti sistemi informatici, banche dati, tracciamento, telecamere, geolocalizzazione… permette di sanzionare con una grande facilità ma nel contempo rende molto difficile opporsi ad eventuali “abusi” o “esagerazioni” o anche a semplici errori. Così si crea anche una grande disparità di trattamento tra chi può permettersi di pagare, senza alcuna reale conseguenza, e chi (magari già non riuscendo ad “arrivare a fine mese”) si ritrova sommerso da cartelle di pagamento che lievitano nel tempo fino a trasformarsi, talvolta, in prelievi forzosi dallo stipendio o peggio. Dunque, la sanzione che nasce come ammenda per aver infranto una norma, di fatto genera una forte ed ormai quasi intollerabile discriminazione. Chiaramente però alla fine io canto solo una canzone tra ironia, protesta e disperazione.

Dal punto di vista stilistico come si presenta?
Molte Multe rappresenta per me qualcosa di nuovo (così come i prossimi brani che usciranno). Il brano nasce chitarra e voce ed ha senza dubbio una struttura piuttosto canonica anche se il ritornello inizialmente era stato pensato come Special ma poi, in una fase di
lavorazione già avanzata, ho deciso di utilizzarlo come inciso perché mi “suonava meglio”. Il sound fresco, caratterizzato da riff di synth e tastiere, grazie all’arrangiamento di Edoardo Bruni, vuole proporre proprio una visione auto ironica dei temi trattati.

Questo nuovo lavoro rappresenta un proseguo o un punto di rottura?

Come accennato prima credo di essere passato, artisticamente parlando, da un importante punto di svolta e sono convinto che questo brano e tutti quelli scritti più di recente (e che usciranno prossimamente) siano certamente un “punto di rottura” o per lo meno di
evoluzione rispetto al passato. Ho imparato ad ascoltare meglio il mio istinto creativo e a scrivere canzoni che prima di
tutto devono rappresentare ed emozionare me stesso. Quello che sono e quello che penso, senza compromessi.

il colore verde si fa tematica fondamentale del pezzo. Cosa rappresenta per te questa
cromia?
Si dice che il verde sia il colore della speranza, il termine “green” oggi ha, nell’immaginario collettivo, una valenza positiva. Sa di ecosostenibile, di politicamente corretto… Ma è questa la “svolta green” tanto auspicata dai media e che ha anche a che fare con
l’economia circolare? Qui di circolare c’è piuttosto una sorta di “tassazione multipla a loop” frutto di un sistema normativo e di controllo digitale talmente sovraccarico di regole (e ancora anacronisticamente succube della burocrazia) da rendere quasi impossibile l’adempimento
stesso. Il risultato è quello di ritrovarsi a pagare delle somme smodate e irrazionalmente smisurate che, il più delle volte, sembrano “fatte per fottere soldi alla gente”. E anche il colore di chi è senza soldi è il verde. La reazione non può che tradursi in un impeto di ribellione, di rabbia (del resto anche labile è verde) unite ad una incredula esasperazione, tra le lacrime di disperazione e le folli risate di chi non può fare altro che prendersi gioco dell’assurda situazione, purtroppo piuttosto comune a molti (forse troppi) ed abbandonarsi alla totale rassegnazione.

Sei stato vincitore del premio Lucio Battisti per la canzone d’autore di Molteno
È la mia valvola di sfogo, la mia poesia, la mia autoanalisi, la mia follia, la mia fotosintesi e
la mia energia.

Progetti per il futuro?
Per ora penso solo alla pubblicazione dei prossimi singoli e del mio secondo album da solista dal titolo Secondo Me(lis) che mi auguro esca entro il prossimo anno. Un progetto sempre tra un sorriso ironico e un filo di sana rabbia.

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Dal mito greco al sogno felliniano, Vincenzo Iantorno e l’ascolto come dono dell’arte

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Vincenzo Iantorno, attore eclettico dai tanti prodigi è un giovane le cui basi nascono e si sviluppano nel teatro. L’indagine sui grandi classici greci e latini lo sta portando a notevoli traguardi come avvenuto per Le metamorfosi di Ovidio di e con Francesco Polizzi. Abbiamo dialogato con lui sul teatro come mito che apre le porte del fantastico e in cui si manifesta l’eterno gioco della natura umana.

 Che idea hai del classico? È un punto di contatto con l’eterno?

Durante il lockdown ho scoperto in me una grande spiritualità che nasce ovviamente dal mio essere cattolico, ma per finalizzare i miei sensi in un’ottica più energetica. L’attore fondamentalmente lavora a stretto contatto con l’energia e per cui riesce ad essere  forse più empatico rispetto a ciò che accade nel mondo. In questo periodo mi sento molto attratto dai luoghi di culto e non parlo soltanto di chiese o monasteri. Chi entra in un luogo sacro lo fa perché confida in una speranza e questa è sempre energia positiva. Per quanto riguarda il classico, il teatro è stato inventato per mostrare i comportamenti dell’uomo all’uomo, per prendersene gioco inizialmente. Credo che il comportamento umano sia alla base sempre lo stesso e quindi i testi classici siano eterni proprio perché raccontano qualcosa che sarà sempre attuale.

Il tuo lavoro più recente è Le metamorfosi di Ovidio sulla scena con Francesco Polizzi. Come hai affrontato il testo?

Mi affascina tantissimo la profondità di Ovidio  ma anche di Shakespeare. Giganti che hanno indagato a fondo l’umano analizzando il contesto storico in cui vivevano ma comprendendo anche le dinamiche interne all’essere. Per questo riescono sono sempre straordinariamente attuali. Lo stesso vale per Plauto e la nascita della commedia. Una delle cose che ho amato di più di quest’esperienza con il testo di Ovidio è stata quella di poter essere eclettico e versatile perché ad ogni scena vestivo personaggi diversi e l’ho affrontato divertendomi e lavorando sull’ascolto dell’altro in scena.

Il teatro greco è una narrazione che, attraverso un rito catartico, cerca di elevare lo spirito. 

La notte di natale sono andato alla messa di mezzanotte, come se avessi sentito una sorta di chiamata e devo dirti che il pregare ha avuto su di me un effetto non indifferente. Alda Merini diceva di parlare con Dio e secondo me non era così fantasiosa o ironica la sua affermazione in quanto possedeva una sensibilità così elevata che il suo dialogo forse era interiore. Guarda, io sono perennemente convinto che il saper regalare un sorriso possa contribuire in minima parte al miglioramento di alcune giornate delle persone. Ognuno di noi è in lotta con il proprio buio durante il giorno e allora, cosa costa un sorriso? Sembrerà banale ma per me è fondamentale donare attraverso l’arte una luce al pubblico. Un’altra cosa fondamentale è l’ascolto ed il saper ascoltare, per un attore, rappresenta un passo importante perché se in scena non ascolti il tuo compagno poni davanti a te uno schermo da cui scaturisce un vuoto che rende il tutto per nulla credibile. 

Hai girato molti corti ma vorrei concentrarmi sullo spot “Campari” dedicato a Fellini. Com’è stato passare dalla fiaba greca a quella felliniana?

È stato magnifico. Mi sono sentito immerso nel mondo onirico di Fellini. C’era l’uomo pinguino, l’uomo elefante, il vigile giapponese che dirige il traffico e devo dire che ho capito ancora di più il perché fosse un genio. Noi giravamo al Salone Margherita a Roma e ad un certo punto è stata girata la scena di un sogno e nel buio si muovevano delle  luci che fornivano un effetto etereo e mi ha trasmesso una sensazione strana, ho creduto veramente di essere in una dimensione onirica.

 

 

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Francesco Leone:”Con la serie Fosca Innocenti ridiamo un po’ di spensieratezza al pubblico”

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Ogni venerdì, in prima serata su Canale 5, lo stiamo vedendo tra i protagonisti della seguitissima fiction “Fosca Innocenti”, accanto a Vanessa Incontrada. Francesco Leone, attore capace e versatile, che nella serie veste i panni dell’agente Pino Ricci, si racconta a Off.

Francesco, quali emozioni ti ha regalato lavorare in Fosca Innocenti?

Sicuramente l’emozione di respirare per tanto tempo l’aria di un set con grandi professionisti e di trascorrere del tempo in una zona della Toscana davvero suggestiva. 

Ti aspettavi ascolti così alti per la puntata d’esordio?

Ci speravo, ma come tutti i debutti ovviamente il risultato rappresentava un’incognita. Sono davvero felice, peraltro è l’esordio più alto per una fiction Mediaset dal 2017… non potevamo chiedere di più! 

Secondo te, qual è stato il punto di forza della fiction sul pubblico?

La leggerezza, la capacità di arrivare alla gente senza doppie strutture. Credo che il pubblico, dopo tante sofferenze, senta il bisogno di recuperare un po’ di spensieratezza. 

Ti piacerebbe continuare a lavorare nel mondo della fiction? Se sì con che tipo di ruoli?

Il mondo delle fiction rappresenta la mia dimensione ideale, quindi assolutamente si. Per i ruoli non ho preconcetti, il mio desiderio è quello di non legarmi a uno stereotipo ma di poter aver l’opportunità di mettermi alla prova con interpretazioni molto differenti, per me sarebbe davvero una bella sfida. 

Al cinema, invece, da quale regista ti piacerebbe essere diretto?

Paolo Sorrentino, con un maestro come lui sarebbe davvero un sogno. Ma devo dire che mi piacerebbe molto essere diretto anche da altri registi bravissimi con profili differenti dal suo, penso a Gabriele Muccino e Ferzan Ozpetek oppure la nuova generazione come Fabio Mollo. 

Tra gli attori italiani e stranieri, invece, con chi ti piacerebbe un giorno dividere il set?

Luca Marinelli ed Elio Germano, peraltro sono anche i miei attori italiani preferiti. 

In futuro come ti piacerebbe vederti?

Mi piacerebbe vedermi con una carriera ben avviata e con la possibilità di continuare a crescere e fare sempre nuove esperienze professionali stimolanti.

 

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Elisa Di Eusanio:”Voglio portare sullo schermo amori normali e donne che superano gli stereotipi”

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E’ un momento d’oro per Elisa Di Eusanio, reduce dal successo di Doc – Nelle tue mani, in onda il giovedì sera su Rai1. L’attrice teramana, che rivedremo in teatro a marzo, è tornata a vestire i panni della caposala Teresa Maraldi, presenza indispensabile nella squadra del Dott.Andrea Fanti (Luca Argentero). In questa seconda stagione vive una travolgente relazione d’amore con Enrico Sandri (Giovanni Scifoni), l’affascinante psichiatra del Policlinico Ambrosiano di Milano. “Ho sognato questa storia la notte in cui andò in onda l’ultima puntata della prima stagione – ci ha detto la Di Eusanio – Quando scrissi agli autori per dirglielo mi risposero che avevano già pensato di inserirla nella narrazione dei nuovi episodi ed ho urlato di gioia quando mi hanno comunicato che era stato fatto”.

E’ una storia d’amore che sta incuriosendo e mietendo consensi, perché tocca alcuni nervi scoperti su determinati stereotipi…

Ricevo tanti complimenti dalle donne, anche se alcune sostengono che Teresa non sia all’altezza di Enrico per l’aspetto fisico e il grado sociale. Sono commenti indicativi di una battaglia che ancora è necessario portare avanti con orgoglio e ardore. Il segnale che gli autori e la Rai hanno dato rispetto a questa relazione è molto importante, perché è necessario portare sullo schermo amori normali, con donne che combattono lo stereotipo sessista e non siano esclusivamente spalle comiche, ma attrici a tutto tondo come accade in altri paesi. Sono felice di questo ruolo e credo che qualcosa si stia movendo rispetto ai pregiudizi, anche per una sempre maggiore attenzione al talento rispetto al grande nome.

In questo periodo ti stiamo vedendo anche in “Fedeltà”, serie Netflix tratta dall’omonimo romanzo di Marco Missiroli. Qual è il tuo ruolo?

In questa serie interpreto Eva, milanese doc che lavora in una mega agenzia immobiliare ed è collega e carissima amica della protagonista Lucrezia Guidone, che affianca in diverse dinamiche ed è la sua confidente. E’ un personaggio chic e in carriera, completamente diversa da Teresa ed è stato divertente calarsi nei suoi panni. Dal cast di “Doc” c’è anche Sara Lazzaro, altra amica della protagonista, e con me e Lucrezia forma un trio alla “Sex and the City”. Sono ruoli non da protagonisti ma importanti per la narrazione della storia, costruiti in ogni sfumatura.

Dal 10 marzo tu e il tuo compagno Andrea Lolli sarete in scena all’Altrove Teatro Studio di Roma nella pièce “Neve di Carta” di Letizia Russo, tratta dai libri di Annacarla Valeriano. Cosa ci puoi anticipare?

Annacarla è teramana come me e la nostra città è stata sede di uno dei più grandi manicomi d’Italia. Nei suoi libri si racconta anche di donne che venivano internate non per disagio psichico, ma perché non potevano avere figli o erano poco inclini al matrimonio. Lei ha ritrovato le lettere scritte da queste donne durante la degenza, e mai spedite, nell’Archivio di Stato di Teramo e ne ha tratto i libri e una mostra che ospiteremo in teatro. I protagonisti sono Gemma e Bernardino, due ultimi dell’Abruzzo rurale di fine Ottocento. Lui è un uomo semplice innamorato di questa donna, ma la madre di lui e il contesto sociale non approvano la loro unione perché lei non può avere figli, e lo spingono a rinchiuderla. Dieci anni dopo Bernardino deciderà di riprendersi il suo amore. E’ un “Orfeo ed Euridice” tra poveri, una storia bellissima con un continuo scambio di lettere che lui avverte come se fossero portate dal tempo.

 

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